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Alla ricerca della tecnologia perduta
Rigenerazione, purificazione, liberazione: una terminologia sacra che spesso si contrappone dinanzi al muro della modernità e che spaventa coloro che sono nati svariati lustri addietro, in apparenza lontani da essa eppure immersi in essa completamente. Spaventa, così come spaventa tutto ciò ch’è inscrivibile nella parola cambiamento, perché il cambiamento è un “lasciare la nostra casa”, sicura e accogliente, per andare verso l’ignoto.
Mark Prensky1, per indicare chi è nato e cresciuto nell’epoca del computer, di internet e delle moderne tecnologie, usa il termine nativo digitale (digital native). Ancor più moderna è la definizione di generazione Google, che indica quelle persone che hanno vissuto la loro infanzia circondati da una rivoluzione che vede nel motore di ricerca statunitense, nato nel 1998, la massima iconografia del cambiamento, quella che ha trasformato l’era dell’informazione in economia della conoscenza.
Noi, gente della modernità, possiamo davvero vivere senza dispositivi elettronici di telecomunicazione, smartphone e internet?
Nativo o immigrato?
Non è un caso se, nell’epoca delle grandi migrazioni causate dalla globalizzazione, la cultura ultilizza lo stesso linguaggio della società per indicare la trasmigrazione di chi, talvolta proprio malgrado, abbracciando il nuovo – migrare, dal latino meatus, significa spingersi innanzi – è divenuto parte integrante dello straordinario progresso tecnologico che ha assalito il mondo negli ultimi venti o trent’anni. Con immigrato digitale, infatti, si indica chi ha imparato a utilizzare le tecnologie digitali in età adulta.
Tra il 1984 e il 1985 videro la luce Apple Macintosh e Commodore Amiga, i primi computer di successo dotati di WIMP (Window, Icon, Menu, Pointing, ovvero un’interfaccia grafica intuitiva simile a quella che usiamo ancora oggi nei moderni sistemi operativi). Essendo io nato nel gennaio del 1985, cioè proprio a cavallo tra questi anni mirabiles dell’era tecnologica, non mi sento né totalmente nativo, né propriamente un immigrato digitale.
A tal proposito una chiosa. In conseguenza della grande crisi europea dei migranti causata da guerre e conflitti nell’Europa dell’est e dalla povertà diffusa nel continente africano, di recente la parola “immigrato” pare aver assunto in Italia connotati negativi che etimologicamente non hanno fondamento. Forse si fa confusione con la parola clandestino (dal latino calam che significa occulto, nascosto e dies: giorno), che indica colui che si nasconde nella notte, lontano dalla luce. Questo per dire che non ci sarebbe nulla di maligno nell’auto-definirsi immigrato digitale.
Personalmente ho sempre amato la tecnologia e fin da piccolo ne ho fatto grande esperienza, dapprima coi personal computer della Commodore, poi coi PC DOS, Windows e GNU/Linux. Inviavo lettere via posta ad amici e parenti quando le email erano ancora strumento per pochi ma ho anche avuto occasione di utilizzare quotidianamente IRC e ICQ nel periodo della loro massima diffusione. Acquistavo regolarmente in edicola quotidiani e riviste (anche videoludiche) e già a 14-15 anni (1999-2000) avevo fondato il mio primo blog e un sito web dedicato ai videogiochi2. Ma telefonavo anche ai miei genitori dalle cabine telefoniche a gettoni della SIP e ho anche vissuto interamente il percorso evolutivo delle telecomunicazioni mobili ricevendo il mio primo cellulare (un mitologico Ericsson T28) come regalo di promozione per l’esame di scuola media. Sono stato tra i pochi della mia generazione ad aver utilizzato attivamente un palmare (un Pocket PC con Windows Mobile) che, mentre sfoderavo il fido pennino per operare sul touch screen, attirava per strada e tra i banchi di scuola gli sguardi incuriositi di compagni e professori molti anni prima che Steve Jobs presentasse il rivoluzionario iPhone al grande pubblico.
La mia tesina di maturità si intitolava: “L’importanza delle telecomunicazioni nella storia e nel mondo attuale”, e parlavo proprio del futuro della connettività mobile, dei computer, di videogiochi e arte digitale. Tutto questo per dire che: il mondo digitale mi appartiene. lo sento mio, ne sono intriso e non faccio alcuna fatica a parlarne. Identicamente, conosco per esperienza diretta i tratti di quel mondo analogico che molti “veri” nativi digitali non hanno potuto toccare con mano.
Si può fare a meno della tecnologia?
Per tanti anni mi sono chiesto, per gioco o per finzione, se mai avessi potuto, naufragato per caso su un’isola deserta o catapultato di prepotenza in un mondo apocalittico à la Fallout, fare a meno di tutta quella tecnologia che oggi diamo per scontata e che, per quanto mi riguarda, ha accompagnato inevitabilmente la mia esistenza e funto, mi azzardo a dire, da riflettore per gran parte di quelle che sono state le scelte importanti della mia vita; non soltanto scolastiche o lavorative, ma anche inerenti attività e interessi che ho ritenuto valevoli del mio tempo e della mia attenzione dacché ho avuto abbastanza consapevolezza di pensiero.
«Perché no?», mi sono detto più di una volta. «Ho già vissuto senza questi strumenti e potrei farne a meno!», ricordo di aver affermato tra me e me non troppo tempo fa. Ahimé, la realtà, soprattutto quando ti colpisce in modo inaspettato (e l’imprevedibilità è la matrice dell’angoscia) è ben più gravosa di ciò che pensavo guardando la mia dipendenza in superficie.
8 marzo 2017, giornata internazionale della donna, ore 17 circa. Intento a seguire una conferenza online sul web development, ricevo un colpo inaspettato e fulmineo in piena faccia come un jab degno del miglior Apollo Creed e che io, Rocky Balboa de noantri, non avrei mai potuto schivare ma soltanto incassare: la TIM, sempre sia lo(r)data, decide di staccare telefono e relativa connessione a internet con un mese di anticipo rispetto alla mia precedente e, vi assicuro, chiarissima comunicazione scritta.
Segue un’interminabile serie di telefonate (inutili) con operatrici rumene che inoltreranno (vani) reclami per far scorrere nuovamente luce nei fili ottici e corrente nei fili metallici della connessione e del telefono. Ma ciò di cui voglio parlarvi non è questo, bensì un altro tipo di luce: un lampo di genio, così l’ho definito in un primo momento, che mi venne qualche giorno dopo, quando ormai le mie speranze stavano lentamente lasciando spazio allo scoramento («In piedi Stallone!»): «Se invece di accendere un mutuo per acquistare una Sim 4G da utilizzare come chiavetta, approfittassi dell’occasione per mettermi alla prova con un esperimento?».
Detto fatto: addio internet. Una deriva nel vuoto tecnologico che non è andata proprio come speravo («Non ho sentito la campana! Ancora un altro round!»). E ora sono quì: davanti al mio computer, dopo un mese ancora senza telefono fisso e per forza di cose accompagnato da una connessione 4G che mi ha attratto per intere settimane e che, con il suo fascino inesorabile, mi ha sedotto come la sensuale Woman in Red di Matrix seduce Neo: un’irresistibile attrazione virtuale che non lascia scampo alcuno.
Naufragio tecnologico
Sono le 9:30. La sveglia suona e dopo averla disattivata mi lascio ricadere all’indietro, sul letto, sogghignando malignamente come Kira di Death Note un attimo dopo aver elaborato un diabolico e apparentemente infallibile piano per stanare Elle, il suo acerrimo nemico. Questo è il primo giorno della mia nuova vita senza tecnologia, perlomeno senza TV, computer e internet. Lo smartphone? In un primo momento avevo pensato di fare a meno anche di quello, ma sarebbe stato estremo, estraniante: «Tanto senza rete 4G lo userò solo per eventuali telefonate».
La giornata procede piuttosto tranquilla e serena, ma quando arriva la sera, dopo essermi rifocillato, mi accorgo che qualcosa che non va: «Cos’è accaduto oggi?”, le notizie delle quali mi nutro: attualità, politica, musica, cinema, le ricavo tutte dalla rete. «Domani acquisterò un quotidiano e…», ma i quotidiani non danno tutte le notizie che mi servono, per esempio sui videogiochi, e non sarebbero in tempo reale. Dovrei acquistare anche mensili, tematici, approfondimenti, praticamente svaligiare l’edicola. Accidenti. «Ah! Dimenticavo che c’è il Kindle con decine di libri caricati e ho ancora da legg..», ma il Kindle è uno strumento tecnologico.
Comincio a meditare, a ragionare prematuramente tra me e me di possibili compromessi: «Potrei ridurre le privazioni e fare a meno soltanto di computer e internet. E per quanto riguarda il Kindle… perché dovrei privarmene?». Mi rendo conto che è passato almeno un decennio da quando lessi il mio primo ebook e contestualmente cominciai a liberarmi dei vecchi libri di carta. Comincio a tirar fuori mentalmente tutte le vecchie, solide e collaudate argomentazioni contro chi demonizza gli ebook preferendo la carta: «Scherzi? Decine di migliaia di pagine che peserebbero tonnellate, con possibilità di inserire infinite note e segnalibri. Tutto sempre in tasca e a portata di mano. E non puoi rompere o perdere niente perché è tutto sincronizzato sul cloud. Costano meno e sono più pratici, non c’è paragone». Funziona, ha sempre funzionato. L’unica contro-argomentazione a favore dei libri è sempre la stessa, solita e mielosa litania: «La carta ha un altro odore, un’altra sensazione tra le mani». Sogghigno un attimo prima di cadere in un sonno profondo e senza sogni.
The Matrix has you
Sono sveglio, fermo di fronte al lavandino. Sgrano gli occhi e apro il rubinetto, lentamente, con lo sguardo perso nel flusso d’acqua e dei pensieri: «Dovrei scrivere qualche appunto su queste giornate. Dopo accendo il PC…», ma il PC è uno strumento tecnologico. Mentre faccio colazione mi rendo conto che i reminder delle cose da fare, nonché tutti i documenti e gli appunti che raccolgo ogni giorno, o sono bloccati sul PC o sincronizzati sulla rete via cloud. «Ci vuole un po’ di musica…», ma tutta la mia musica è digitalizzata in formato .flac lossless3 e l’impianto audio è collegato al PC. Metto su Operation: Mindcrime dei Queensryche, uno dei pochi dischi sacri rimasti ancora nella mia collezione fisica.
Comincio a sudare freddo. «Sono un truffatore?». Il bisogno del PC cresce dentro me, sempre di più. «In fondo utilizzare il PC senza internet è come utilizzare una macchina da scrivere. È solo più pratico, più veloce, più funzionale di una macchina da scrivere. L’esperimento può riguardare solo la privazione di internet. Sì, penso possa funzionare anche così». Senza rete si può vivere tranquillamente, cosa potrebbe mai andare storto?
Me ne accorgo subito, non appena mi rendo conto che trovare qualsiasi tipo di informazione banale, di solito accessibile con una semplice ricerca sul web, è diventato un incubo. Sono in negozio e devo acquistare un nuovo microonde: «È un buon prezzo? Quali altri modelli ci sono? Quanto costa nei negozi online?». Ho bisogno di un cavo USB lungo 10 metri: «Dove posso trovarlo? Esistono in commercio? Posso crimparli?». Mentre cerco disperatamente di ricordare come facevo a trovare un semplice numero di telefono prima della mia ormai lampante internet dipendenza, mi rendo conto di non poter vedere video, recensioni, confronti, opinioni o commenti su nessun prodotto. Diamine, non posso neanche controllare il saldo della carta o della banca senza dovermi recare in filiale.
«Aspetta, quand’è che usciva quel videogioco in Italia? Non ricordo. Marzo, sì, ma quale giorno?». Su Steam non potevo entrare. Sì, avrei potuto chiamare in negozio se solo avessi saputo come fare a rintracciare il numero di un qualsiasi dannatissimo negozio del mondo.
Un altro giorno, girovagando da IKEA, in cerca di informazioni su un prodotto in vendita domando: «Come faccio a sapere quando sarà disponibile questo articolo?». Il commesso risponde: “Puoi controllare in tempo reale sul sito internet”. Uno sconsolato «Ah», è l’unico monosillabo che riesco a pronunciare.
Ero stato sconfitto, dovevo solo trovare il coraggio di ammetterlo.
Follow the white rabbit
Senza internet il mondo reale sembra rallentato di dieci volte. Non perché non ci sia nulla da fare, ma perché eventi e azioni che davo per scontati, all’improvviso, paiono accadere con una dilatazione temporale che m’ero disabituato a percepire. La rete permette di ottenere tutto e subito. Senza rete devi fare almeno uno o due passaggi aggiuntivi per ogni operazione.
La TV non aiuta. Guardarla implica subire interminabili minuti di pubblicità non richiesta. E la gente si lamenta di un banner o di qualche secondo di clip “skippabile” su YouTube. Un domani, i colossi del web, potrebbero importare simili politiche per i contenuti sulla rete, e allora sì che rimpiangeremo i bei tempi andati della pubblicità che duravano poco.
Intanto le giornate proseguono e sono circondato ovunque da tentazioni: Tim, Tre, Vodafone, Wind. Offerte, offerte, offerte. Giga, giga, giga. Passa con noi di quà, passa con noi di là: il mondo intero a portata di mano. Basterebbe entrare in uno di quegli scintillanti e, come mai prima d’ora, seducenti negozi di telefonia, chiedere di attivare un’offerta o una sim, firmare e via: pronto a volare nel cyberspazio.
Ma sono duro a morire. «Ora che ho perso la vista ci vedo di più». Ripeto nella mia testa quella frase di Philippe Noiret di Nuovo Cinema Paradiso, ripresa anche dai Dream Theater in Take The Time. Non ci sto a perdere la sfida in maniera tanto eclatante e provo a identificare i possibili vantaggi della mia condizione menomata. Prima di tutto, senza i social network ci sono molte meno distrazioni da aggirare. Questo è davvero un bene. Sono molto più concentrato su ciò che faccio, su una lettura o ogni altra singola attività. Già, ma ci sono anche molti meno stimoli quotidiani. Le persone intorno a me sono ancora connesse alla rete e sanno “tutto di tutto”, mentre io, spaesato e sperduto in un labirinto senza input freschi, sembro un alieno caduto giù da un altro pianeta. Non posso che ripetere: «Ah sì?».
Ho anche letto molto più del solito! No, in realtà ho solo letto molti più libri rispetto a notizie o altra roba semi-casuale trovata in giro sulla rete.
Comincio a rendermi conto, poco alla volta, dell’inevitabile realtà che, in verità, conoscevo bene sin dall’inizio. Scendo. Mi dirigo verso il più vicino negozio di telefonia. Dissolvenza. Quando esco dal negozio, in tasca ho una nuova SIM con offerta 4G inclusa.
Conosci te stesso e conoscerai l’universo
Mentre cerco di non scadere troppo nella retorica talvolta banale del: «è uno strumento e dipende da come lo usi», rifletto sulla mia esperienza e su cìò che mi ha lasciato. Comprendo che un conto è predicare contro qualcosa, ben altra cosa è agire concretamente nel quotidiano.
Sulle onde della società soffriamo i naufragi più grandi. Quello di cui vi sto parlando è il naufragio da una società che si è fatta mondo tecnologico. Una società – e per società intendo ovviamente società occidentale – che facilmente critica sé stessa nel suo astratto, mentre troppo poco sa criticare sé stesso il singolo individuo.
La tecnologia ci ha consegnato le chiavi della conoscenza ma dobbiamo saperla utilizzare in modo appropriato, senza sregolatezze ed eccessi che la trasformerebbero in un veleno. Siamo ancora troppo inconsapevoli dell’immensa forza salvifica o distruttiva che abbiamo tra le mani, come bambini piccoli che girano in casa correndo e agitando velocemente per aria degli affilati bisturi da chirurgo. Bisogna imparare a gestire la responsabilità di questa “forza” trovando un equilibrio tra noi stessi e il nostro modo di usare i mezzi tecnologici. L’automobile non dev’essere una scusa per non camminare, così come internet non dev’essere una scusa per procrastinare o distrarsi in continuazione. Anch’io, che pure vado predicando a destra e manca, ci sono miserabilmente caduto, seppure in modo limitato.
Scienza e tecnologia danno forza all’individuo rendendo accessibile ciò che prima era inarrivabile. Rendendo possibile l’impossibile. Rendendo, come diretta conseguenza, le intere fondamenta della società più solide. Ciò accade, ripeto, che vi sia consapevolezza o meno; ma visto che «il sonno della ragione genera mostri» (Francisco Goya) e «chi lotta con i mostri deve stare attento a non diventare egli stesso un mostro» (Friedrich Nietzsche), il necessario è divenire consapevoli di chi siamo, del potere che abbiamo tra le mani e della responsabilità che ne deriva.
Accendiamo pure dispositivi e internet, ma ricordiamo di tenere sempre acceso anche il cervello.
Note a piè di pagina
-
Mark Prensky. Digital Natives, Digital Immigrants. 2001. ↩
-
Andrea Brandi. La finestra sul passato, Il computer e internet. 2022. ↩
-
Andrea Brandi. Il futuro della musica High-Fidelity. 2011. ↩