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Non guarderò il trailer di lancio di Death Stranding

Hideo Kojima con indosso la t-shirt di Death Stranding

Per Hideo Kojima, Death Stranding è il lavoro della vita e il fallimento non è contemplato. In quel gioco è racchiuso il suo riscatto come essere umano e creatore, il suo tentativo estremo e coraggioso di diffondere dignità e grazia, due valori fondamentali per un giapponese come lui, con l’anima impregnata della cultura del suo paese, seppure per attrazione chimica ne abbia assorbita altrettanta di quella occidentale.

Il recupero della sua dignità, come autore indipendente dopo la cacciata da parte di Konami che lo costrinse al silenzio e all’isolamento. La grazia, che si manifesta con la possibilità di poter esprimere la sua sensibilità e la sua morale, collegando ancora una volta il suo cuore e la sua visione del mondo alla forma d’espressione artistica a lui più congeniale: il videogioco.

La biografia sul suo profilo Twitter non mente affatto: «Game Creator: 70% of my body is made of movies». Il perché questi due elementi, videogiochi e cinema, siano assolutamente imprescindibili nella dimensione kojimiana, è impresso a fuoco nella storia dei videogiochi, nei suoi tentativi di sintetizzare due mondi così tanto vicini filosoficamente quanto ancora così diversi tra loro nella forma. E se quella lontananza della forma è andata via via assottigliandosi nel corso degli ultimi anni, è stato anche - e azzarderei soprattutto - per merito di Hideo Kojima.

Perché Hideo Kojima non è una persona qualunque: è un brillante regista e game designer, checché ne dicano i suoi detrattori. Uno dei pochi a essere riuscito nell’impresa complicatissima di fare “cinema nel videogioco” senza sconfinare eccessivamente nel film interattivo (vedi David Cage e Quantic Dream) o finendo soltanto per imprimere sequenze di “cinema sul videogioco” (vedi Quantum Break dei Remedy).

Ma allora perché non guardare il trailer di lancio di Death Stranding, diretto e montato da Kojima stesso, se è stato proprio lui a volerlo realizzare e pubblicare?

Di primo acchito è stata un’intuizione che riesco a esprimere solo con “sesto senso”. Quando ho visto la durata del trailer, quasi 8 minuti, mi sono bloccato e ho aspettato. Ho letto le prime reazioni: «bellissimo», «incredibile», «wow». Ma ho aspettato ancora. Perché rimembravo le altre reazioni, irritate e irridenti, verso il video della Gamescom che iniziava con il protagonista Sam, addormentato, proprio un attimo prima di svegliarsi e urinare in terra dando vita a un fungo abnorme. Un filmato che ha fatto sorridere anche, ma per la gioia di constatarne il suo coraggio.

Perché conosco Kojima e ho vissuto sulla mia pelle di videogiocatore tutte le sue pazzie. Dal modo in cui battere Psycho Mantis in Metal Gear Solid, fino alla deception sulla natura di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, passando per la folle strategia pre-release di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty che spiazzò senza pietà l’intera platea di videogiocatori che da anni aspettava di riprendere il controllo di Solid Snake su PlayStation 2. E invece fu Hideo Kojima, il game designer, a prendere il controllo di noi, videogiocatori. In tutti i modi in cui è possibile esprimere artisticamente il concetto di “prendere il controllo”.

Ma Metal Gear Solid 2 ha avuto una tale potenza e influenza su di me proprio perché fu una sorpresa del tutto inaspettata. Erano altri tempi (2001) e le informazioni sui videogiochi si raccoglievano soprattutto dalle fiere e sulle riviste cartacee. Non potevo prevederlo, e fu proprio quell’imprevedibilità a imprimere in maniera indelebile quel videogioco nella mia memoria. A farmi riflettere a soli 16 anni, come forse mai avevo fatto prima di allora, sulla natura stessa della materia espressiva che chiamiamo “videogiochi”.

«Tutto quello che hai provato, che hai pensato durante la missione, è tuo. Quel che decidi di farne è una tua scelta», afferma Hideo Kojima per bocca di Solid Snake alla fine di Metal Gear Solid 2. E ha ragione. Il finale (la meta) di Metal Gear Solid 2, che potremmo cinematograficamente paragonare a un gigantesco MacGuffin di videoludiche proporzioni, è meno importante rispetto alla sostanza, alla concettualità (il viaggio) che lo forma.

Ma dicevo, sul trailer di lancio di Death Stranding. Ho aspettato e resistito alla tentazione nella speranza di leggere feedback affidabili… Finché sono arrivati e non da persone a caso ma da veterani che hanno avuto la fortuna di finire il gioco in anticipo rispetto all’uscita ufficiale: Alessandro Bruni e Francesco Fossetti e subito dopo Michele Poggi (Sabaku No Maiku) hanno detto la stessa cosa: «Fidatevi, non guardatelo».

Ho tirato un sospiro di sollievo. Sono certo che guardarlo non sarà un problema, per molti. Per me, e per altri sensibili folli vecchiardi come me, potrebbe esserlo. Perché la mia sensibilità verso il lavoro di Kojima, per l’esperienza che potrebbe indelebilmente fissare Death Stranding nella mia mente nei decenni a venire, così come ora vi sono impresse tutte le passate esperienze, è massima, è particolare, è preziosa. E non posso sprecarla cedendo all’hype di un semplice trailer, per quanto incredibile e mirabolante possa essere. Perché non sono disposto a sacrificare neanche una minima porzione del viaggio che sto per intraprendere barattandolo con un trailer di 8 miseri minuti, sapendo che è stato appositamente patrocinato dal marketing di Sony per spingere le vendite del gioco.

Inoltre questa era l’ultima occasione per Kojima di osare. Doveva esagerare perché questo è il suo gioco della vita. Death Stranding è la sua occasione di (ri)sollevarsi imponente davanti al mondo intero. Doveva vincere e convincere. E da ciò che leggo in giro, pare ci sia riuscito alla grande.

Io non dovevo essere convinto. Mi aveva già convinto al «I’m back».