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Lucio Battisti: il volto che si manifesta ed è oltre l’ordine della natura

Lucio Battisti: il volto che si manifesta ed è oltre l’ordine della natura

Intanto non vivi e, come ho detto, io intendo seguire questa professione, intendo guadagnare, intendo divertirmi, intendo avere successo, ma intendo anche vivere. […] Intendo conservare la mia autonomia, la mia personalità, e una delle cose che ti spersonalizzano al massimo sono le serate.

Così parlava Lucio Battisti nel 1969 ricalcando ciò che fecero i Beatles solo pochi anni prima quando maturarono la decisione di allontanarsi definitivamente dalle scene per dedicarsi interamente alla produzione in studio. Figli di questa decisione sono capolavori del calibro di Revolver e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Battisti era avanti a tutti e lo ha dimostrato incessantemente per tutta la vita, dando sempre prova di sapersi rinnovare senza intaccare la sua personale vena melodica, mettendo in subbuglio dapprima la classica canzone d’autore italiana e poi spaziando una molteplicità di generi che vanno dal folk al country, al progressive, passando per sonorità latino-americane, new wave e dance-elettronica.

Poi lo shock: «Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare con il pubblico solo per mezzo del suo lavoro», una dichiarazione che anticipava la fine della sua collaborazione con Mogol, paroliere che lo aveva accompagnato durante tutta la sua carriera e con il quale aveva scritto decine di canzoni destinate a scalare le classifiche di vendita e con il quale aveva fondato un’etichetta discografica (la Numero Uno) che aveva portato al successo innumerevoli artisti tra i quali: Formula 3, Bruno Lauzi, Edoardo Bennato, Adriano Pappalardo, Premiata Forneria Marconi, Ivan Graziani, Eugenio Finardi.

Nel 1982 pubblicò un disco elettronico sperimentale con testi di Velezia (la moglie, o egli stesso come si può dedurre dal testo della canzone Registrazione), sui quali Battisti tentò di stravolgere il suo stile di songwriter strizzando l’occhio a sonorità elettroniche new-age. Ma era soltanto un bizzarro esperimento, seguito da un silenzio lungo quattro anni durante i quali accadde qualcosa che cambiò il suo destino: l’incontro con il paroliere Pasquale Panella.

Ho sempre amato Jagger e gli Stones, i Beatles un po’ meno, insieme ai Beach Boys, forse perché hanno il nome che comincia per B. […] Da Paul McCartney ho imparato a cantare, da Ray Charles ad emozionare, da Dylan a dire quello che mi pare e dal Poeta ad alleviar l’umanità

— Lucio Battisti - Registrazione (E già, 1982)

Battisti e Mogol: tu chiamale Emozioni

Dopo una serie di singoli di successo, capeggiati da pezzi come Senza luce dei Dik Dik (cover dei Procol Harum da lui prodotta in cui veste i panni di tecnico del suono) e 29 settembre dell’Equipe 84, su consiglio di Mogol, Battisti decide di cantare egli stesso i brani scritti. I primi pezzi furono un fulmine a ciel sereno: Un’avventura e Non è francesca che precedono il primo album: Lucio Battisti (1969), una raccolta fatta per gran parte di pezzi già interpretati da altri artisti. Ma fu l’anno successivo, quando vide la luce l’album Emozioni, che divennero chiari i connotati del Battisti, dapprima compositore: ritmi e arrangiamenti di matrice R&B, e poi interprete: appassionato, romantico e intenso come nessun altro.

Eppure, nonostante il grande successo di pubblico, Battisti aveva già voglia di sperimentare e preparò un concept album che la Ricordi tenne da parte per alcuni anni: Amore e non amore (1971), una raffinata miscela di progressive-folk con venature psichedeliche, suonato da coloro che formarono poi la Premiata Forneria Marconi con Alberto Radius alle chitarre. Quell’album era dannatamente eversivo per l’epoca, a cominciare dalla copertina che ritrae una donna nuda di spalle (Grazia Letizia, sua futura moglie) e lui in primo piano con un paio di Superga e un cilindro, sguardo basso e barba trasandata. La traccia d’apertura: il progressive-rock di Dio mio no! rappresenta una specie di bestemmia per un certo pubblico italico filo-democristiano affezionato alle canzonette d’amore e che si ritrova ad ascoltare le urla bestiali di Battisti mentre mima un rapporto intimo con la sua partner.

Liberatosi della Ricordi è pronto a esprimere tutta la sua creatività compositiva sotto l’egidia della sua nuova casa discografica fondata insieme a Mogol, venne pubblicato Umanamente uomo: il sogno (1972) e sempre lo stesso anno Il mio canto libero (1972), che contengono pezzi di straordinaria bellezza e delicatezza.

Affiancato da decine di musicisti e collaboratori, Lucio Battisti ci delizia con le intricate sovrapposizioni vocali di Pensieri e parole, la struggente I giardini di marzo, il pop-soul de Il mio canto libero, la voce rotta sospesa nel leggiadro arrangiamento d’archi di Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi, l’orchestra perfettamente disposta sulla chitarra battistiana ne La luce dell’est.

Mentre i suoi pezzi entravano nella storia, influenzando innumerevoli cantautori, tra i quali è facile scorgere Rino Gaetano, Francesco De Gregori o Eduardo Bennato, Battisti decideva di cambiare tutto e trasformarsi in polistrumentista.

Ne Il Nostro Caro Angelo (1973) è possibile discernere attimi di pura genialità, come il reggae-rock di Prendi fra le mani la testa (anni prima che il genere venisse “inventato” dai Police), la poetica cavalcata rock di Questo inferno rosa e l’insolito schema musicale de La collina dei ciliegi, che non possiede un vero e proprio ritornello ma solo sporadici cambi di ritmo.

Le atmosfere tribali e le percussioni latin-rock di Ma è un canto brasileiro e La canzone della terra anticipano il successivo album Anima Latina (1976), uno dei maggiori capolavori nella storia della musica rock sperimentale. In alcuni passaggi dei brani presenti nel disco, le parole cantate sono volutamente mixate in modo tale da essere difficili da comprendere per costringere l’ascoltatore a concentrarsi maggiormente sul testo. Ovviamente il disco fu stroncato dalla critica e il pubblico lo considerò un disco minore.

Quando uno parla in mezzo agli altri, non urla ma non tace neppure, se la sua voce interessa a chi ascolta viene individuata in mezzo alle altre, magari con un po’ più di attenzione, con un po’ di fatica. […] ascoltare significa qualcosa: e ascoltare con attenzione, magari rimettendo il disco daccapo perché non si è capito, magari facendo irritare chi non è riuscito ad individuare al primo ascolto una parola, è un’operazione stimolante, coinvolgente; è il modo che ho scelto per comunicare con gli altri, per essere presente in mezzo agli altri.

— Lucio Battisti - Intervista a Renato Marengo (1974)

Per omaggiare Lucio dopo la sua morte, Pasquale Panella scelse di recitare in TV, durante il TG2 Dossier, un suo pezzo scritto da Mogol e tratto proprio dall’album Anima Latina: Anonimo, uno dei brani in cui il missaggio vocale di alcuni passaggi rende difficile l’ascolto cristallino del testo cantato.

Siamo nel 1974 e Lucio Battisti sembra letteralmente incontenibile, tanto che qualsiasi altro artista avrebbe potuto subire al suo posto, e a ragione, una battuta d’arresto. Ma Lucio non ci sta e prova ancora una volta a reinventarsi con La batteria, il contrabbasso, eccetera (1976), titolo scelto per evidenziare la forte dominanza della sezione ritmica, tipica della new-wave, rispetto agli altri strumenti, cominciando a mettere a fuoco un discorso che prenderà una piega insolita nel periodo bianco dei dischi panelliani.

Se si ascoltano attentamente tutte le canzoni degli album, l’unico freno alla sua stupefacente creatività compositiva sembrano essere alcuni dei testi di Mogol, talvolta un po’ scontati. Con Io tu noi tutti (1977), registrato a Hollywood, Battisti dimostrò tutta l’intenzione di continuare i suoi studi sulla ritmica, affiancando in taluni casi i sintetizzatori elettronici ai classici strumenti e contaminando definitivamente il suo cantautorato con sonorità funky-dance di stampo americano.

Nel successivo Una donna per amico (1978), gli arrangiamenti battistiani raggiungono vette che sfiorano la perfezione. Alcune tracce sono esemplari: Prendila così è un pezzo magnifico, forse il migliore di quel periodo: la sintesi perfetta di tutta la sua ricerca melodico-compositiva. Siamo nel 1978 e Lucio Battisti è sulla cresta dell’onda da oltre dieci anni. Soltanto pochissimi musicisti sono riusciti, come lui, a restare prolifici e creativi per così tanto tempo di seguito.

Una giornata uggiosa (1980) segnò un punto di svolta definitivo e forse trascurato della discografia di Battisti: le tastiere diventano le assolute protagoniste al posto delle chitarre, dominate sempre dalla solita e ormai preponderante sezione ritmica.

Il monolocale è un esempio di eccellenza melodica, ritmica e strutturale: la voce e la chitarra folk di battisti si fondono perfettamente alla chitarra elettrica di Phil Palmer, al geniale basso di John Giblin e alle magnetiche tastiere di Geoff Westley; il tutto accompagnato da un testo “non altrettanto” eccezionale.

Ma la voglia di Battisti di cambiare ed esplorare nuove branche della musica non aveva limiti, tanto che questo disco sancì definitivamente la fine del rapporto lavorativo con Mogol, l’anima gemella che lo aveva accompagnato per il suo intero percorso artistico. Nella sua ultima intervista dichiarò:

L’artista non esiste, esiste la sua Arte.

— Lucio Battisti

Dopodichè scomparì dalla scena pubblica ritirandosi a vita privata.

Un nuovo inizio

Nel 1982 venne pubblicato E già dando inizio a una nuova fase della sua carriera. Si tratta di un disco completamente fuori dagli schemi, solitamente considerato il primo grande passo falso di Battisti. I testi furono scritti insieme alla moglie Grazia Letizia Veronese che si firma con lo pseudonimo di Velezia, anche se alcuni pensano sia lo stesso Battisti l’autore di gran parte delle liriche, se non di tutte.

Più che un album è una specie di un contenitore di esperimenti. I testi diventano solo un pretesto per collaudare nuove sonorità, decisamente elettroniche con una spruzzata di new-age, ma soprattutto per giocare con la voce in modi curiosi, per intonare nuovi esaltanti vortici vocali. E, come spesso accade per gli esperimenti, è privo di quella certa sensazione di compiutezza delle grandi opere.

L’ingrediente che riuscì magicamente ad arricchire quella stravagante formula fu l’incontro con il poeta e scrittore romano Pasquale Panella.

Battisti e Panella: le cose che pensano

Don Giovanni (1986) richiese quattro lunghi anni per essere completato durante i quali la coppia entrò subito in sintonia. Adesso Battisti si trova assolutamente a suo agio con tastiere e sintetizzatori elettronici e, allo stesso tempo, riesce a mescolarli perfettamente alle sonorità classiche tipiche del suo repertorio, senza dimenticare gli arrangiamenti d’archi che hanno reso famose alcune delle sue migliori canzoni. Panella, a partire dalle musiche di Battisti, scrive delle vere delle proprie poesie dense di forme astruse e significati sibillini.

Con il successivo L’apparenza (1988), dove stavolta è Battisti che scrive la musica sulle poesie di Panella, è ormai chiaro che il modo italiano di intendere la musica è stato rivoluzionato per sempre. Si tratta forse del lavoro più compatto e impalpabile del periodo. Gli strumenti elettronici tessono sottilissime cuciture sull’accompagnamento classicheggiante, scivolando con leggiadria sui testi ermetici di Panella. Lo scrittore gioca con le parole e con la metrica generando aforismi apparentemente indecifrabili.

La canonica struttura delle canzoni è ormai un lontanissimo ricordo. Lo schema strofa-ritornello viene definitivamente annientato e, utilizzando un innovativo modus-operandi di produzione e diffusione musicale, viene stravolto il modo di ascoltare la musica dando vita a quella che potremmo definire una vera e propria filosofia musicale.

Le copertine diventano minimaliste fino all’osso e negli ultimi quattro dischi completamente bianche, asettiche, così come la voce, che diventa più controllata, a volte persino inquietante; mescolando toni caldi e freddi, parlato e falsetto; utilizzando metriche libere e virtuosismi musicali sconvolgenti, imprevisti troncamenti di frasi e di periodi e pause inattese.

Battisti e Panella si domandano e ci domandano: cos’è davvero la musica? Quali sono le sue regole e i suoi limiti? Il duo rigetta completamente l’idea che la musica, così come i testi, debbano sottostare a determinate regole rigide e deterministiche. Ci costringono ad ascoltare, a giudicare, ad analizzare con rinnovata criticità, a comprendere qualcosa che di primo acchito sembra incomprensibile, spingendoci a ricercarne il significato, anzi “i significati”, le citazioni e i riferimenti filosofico-culturali nascosti al loro interno in maniera più o meno esplicita.

La Sposa Occidentale (1990) evolve ulteriormente quel discorso, virando verso un sound ancora più elettronico con tratti di minimalismo esasperato alternati a ricchi miscugli di movimenti ritmici elettronici, swing di tastiere e sintetizzatori perfettamente incastonati alle tessiture vocali di testi metaforici e complessi, allitterazioni e magiche assonanze.

Un’estremizzazione ulteriore avvenne con Cosa succederà alla ragazza (1992): una vera e propria audio-tesina sul ritmo, fatta di incessanti battiti elettronici: un cadenzato elettro-funk che strizza addirittura l’occhio al dubstep, con un cantato quasi parlato che ricorda nei casi più estremi l’hip-hop (Ecco i negozi e Cosa farà di nuovo) alcuni anni prima che il genere sbarcasse effettivamente in Italia.

I dischi bianchi sono opere che appartengono alla fine del novecento e, come massima espressione di quel secolo, racchiudono in sé tutto ciò che era stato fatto fino a quel momento. In un periodo dove sembrava che tutto fosse già stato pensato, inventato e sperimentato, i due artisti raggiungono il picco più alto raggiungibile dalla musica italiana. Surrealismo post-moderno direbbero alcuni. Avanti, talmente tanto che ancora oggi, a distanza di svariati decenni, si stenta a comprenderne l’effettiva maestosa grandezza.

La summa finale di tutte le precedenti evoluzioni e sperimentazioni è Hegel (1994), dove viene aggiunta una componente filosofica ulteriore e ancora più esplicita alla complessità dei testi di Pasquale Panella, che danzano su tracce dove ritmica, elettroniche e cantato, raggiungono un equilibrio quasi totale.

Certo, Battisti e Panella non sono stati i primi a tentare di abbattere il muro delle regole musicali non scritte, ma sono stati i primi a trovare l’armonia perfetta tra melodia e avanguardia, tra musica colta e musica popolare, tra poesia e prosa.

Grazie alla stravagante follia dei testi di Pasquale Panella, Lucio Battisti riuscì a dare finalmente libero sfogo alla sua fantasia. Insieme, scalarono incessantemente e senza mai guardare in basso, la montagna delle loro ricerche concettuali.

Heidegger disse: «Hegel è stato l’ultimo filosofo greco», riferendosi al fatto che Hegel aveva sviluppato in modo esauriente tutte le forme della possibilità, dall’essere indeterminato, fino all’idea, esprimendo nello stesso tempo anche il mondo reale. Allo stesso modo Battisti-Panella esplorano, scomponendole e rielaborandole, tutte le conquiste lessico-musicali fatte fino a quel momento dall’uomo e lo fanno utilizzando la lingua romanza per eccellenza: l’italiano, perfettamente armonizzato al linguaggio universale della musica.

I capolavori del periodo bianco sono fuori dal tempo, anzi, senza tempo come una tela di Salvador Dalì. Rinunciando totalmente alla vita pubblica, al palcoscenico, a ogni tipo di apparizione mediatica e promozione musicale, rendendosi immune al gossip e facendosi scivolare addosso ogni critica restando avvolto dall’ombra e dal silenzio, Lucio Battisti si guadagna meritatamente l’etichetta di più grande artista italiano di tutti i tempi.

Morì il 9 settembre del 1998 e non sapremo mai se aveva ancora altre gemme da farci ascoltare, se all’età di 55 anni era ancora viva in lui la voglia di rinnovarsi.

Possiamo solo lasciarci trasportare dalla fantasia ascoltando La voce del viso, ultima traccia dell’album Hegel, la canzone più insolita della discografia di Battisti, e rimanere a bocca aperta ascoltando il suo indistinguibile cantato interamente in falsetto a 150 frenetici bpm: velocità folle per una canzone di quel genere.

Una cosa è certa: il patrimonio artistico che ci ha lasciato è di inestimabile valore. La sua è stata senza alcuna ombra di dubbio una delle più incredibili produzioni musicali della storia della musica mondiale; una produzione che ha raggiunto vertici inattesi e irraggiungibili con gli ultimi criptici lavori sviluppati insieme a Pasquale Panella che, forse, un giorno verranno finalmente decifrati, analizzati e infine apprezzati per quello che sono: autentici capolavori.

Le parole non hanno un significato, perchè ne hanno molti. Io ho una vocazione parossistica del senso. Detesto chi ne enfatizza uno soltanto: è un impoverimento della canzone. Le canzoni hanno bisogno di trovare sempre significati nuovi e non devono avere speranza. Dove c’è speranza non c’è artista.

— Pasquale Panella