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Death Stranding: viaggio dentro te stesso

Death Stranding: viaggio dentro te stesso

Trailer dal 2016 al 2018

Tutto cominciò con un furioso e orgoglioso «I’m Back» a sorpresa del maestro Hideo Kojima all’E3 2016, portatore di un regalo: un trailer epocale che resterà nella storia del videoludo, con una colonna sonora che faceva risuonare come un eco infinito quel «Sono tornato» attraverso la voce di Ryan Karazija (aka Low Roar): «I’ll keep coming», nonostante tutto e nonostante tutti: «Videogiochi e cinema sono la mia vita».

Nel primo trailer si mescolano simbolismi di morte (balene, pesci e granchi spiaggiati) e vita (un infante e le sue orme lasciate sulla pelle), accompagnati da tetri e divini presagi (5 figure fluttuanti che appaiono all’orizzonte).

Alcuni mesi dopo, I Game Awards 2016 partirono in quarta con il premio Industry Icon assegnato a Hideo Kojima. Un attimo dopo, il delirio. Un siparietto nel quale il game designer giapponese fa il gesto di andar via per poi ritornare sui suoi passi esclamando: «One more thing…», tra le urla estasiate del pubblico che già pregustava ciò che poi, inevitabilmente e per grazia del divin-Kojima, giunse in diretta streaming mondiale.

Il secondo enigmatico trailer di Death Stranding, realizzato in 4K real-time grazie all’utilizzo del motore grafico Decima di Guerrilla Games (lo stesso che stava dando vita a Horizon Zero Dawn), conta la presenza del regista Guillermo del Toro (stranamente non accreditato nei titoli di coda) e l’Hannibal della serie TV tanto amata da Kojima-san: Mads Mikkelsen.

Dopo l’occasione sfumata di Silent Hills, il trio Kojima-Del Toro-Reedus era tornato più splendente che mai, arricchito della compagnia di una quarta e certamente gradita figura: il fantastico Le Chiffre di 007: Casinò Royale e premiato come miglior attore a Cannes per la sua indimenticabile performance nel film Il sospetto di Vinterberg: Mads Mikkelsen. Per la prima volta in un videogioco, veste i panni di un oscuro soldato, antieroe sporcato da una melma nera come la pece che aleggia nell’aria, nell’acqua e nelle sue stesse vene. Un liquido seminale presagio di morte invece che di vita, che corrompe tutto mescolando carne e metallo, sangue e pece. Cos’è questa morte incagliata dal significato imperscrutabile? Cosa sono quegli strands (fili) che legano la figura di Mikkelsen ai terrificanti soldati non-morti?

Poi quegli 8 minuti di pura estasi ai Game Awards 2017. Graficamente mozzafiato. Contesto e ambientazione totalmente fuori dagli schemi, al limite della follia e dell’allucinazione. Di primo acchito, non ci furono abbastanza parole per descrivere il terzo terzo trailer di Death Stranding: soltanto la consapevolezza che Hideo Kojima stava preparando qualcosa di originale, complesso, enorme.

Non riesco a capire per niente come funzioni il gioco. È un labirinto. Tutto ciò che posso dire è che si tratta di qualcosa di mai visto prima.

— Mads Mikkelsen su Death Stranding

Com’era facile immaginare, ogni nuovo trailer aggiungeva decine di nuovi interrogativi senza dare “apparentemente” alcuna risposta. Tutti lenti e misteriosi, accompagnati da un montaggio sonoro conturbante e affascinante, si prolungavano incessante mentre dalla superficie delle effettistiche emergevano le tracce originali dello svedese Ludvig Forssell, già autore delle musiche di Metal Gear Solid V: Ground Zeroes e The Phantom Pain, compresa la malinconica Quiet’s Theme cantata da Stefanie Joosten al TGA 2015. Oppure le dilatate e trasognanti melodie dei Low Roar o dei Silent Poets di Asylums For The Feeling. Fino alla melodiosa e straniante violenza di Path degli Apocalyptica.

Gameplay di un dramma esistenziale

«Un moderno Stalker videoludico», è stato il primo pensiero avuto durante la visione delle sequenze giocate di Death Stranding: decine di minuti di opprimente vuoto antropologico. Ma le influenze sono tante e chiaramente percepibili, tra letteratura, cinema e videogiochi. Da Lovecraft a Apocalypse Now (Coppola, 1979. Come lo Stalker di Tarkovsky). Da Viaggio verso Agartha di Makoto Shinkai a Neon Genesis Evangelion di Hideaki Anno. Da Journey (Jenova Chen, 2012) a INSIDE (Playdead, 2016)

Il gameplay di Death Stranding è la fotografia di un dramma esistenziale, ancestrale, proprio dell’intera razza umana: quello dello stare al mondo. Sopravvivere, ma perché poi? Pensieri profondi come gli scenari di un mondo ostile e condannato al declino attraverso il quale siamo costretti a trascinarci. Ogni giorno, ogni istante, incessantemente.

Una fatica che trasuda da ogni goccia di gameplay, dove Sam Porter Bridges, animale da soma nel corpo e nello spirito, non può nascondere la pena dello stare al mondo, una pena che ci interroga e ci consuma dal di dentro con tutte le sue contraddizioni. Non importa quali obiettivi l’HUD ci indica di dover raggiungere, nel profondo, quando l’anima viene sopraffatta dall’immensa desolazione attorno, una domanda inesorabilmente erompe: «Perché continuo ad andare avanti? Chi me lo fa fare». Eppure non molliamo mai, sopportiamo il dolore, la sofferenza, le difficoltà, e continuiamo a strisciare come vermi, attraverso nere e viscose paludi di pensieri e di peccati, verso qualcosa che non sappiamo esattamente cos’è, eppure continuiamo a cercarlo, a inseguirlo con tutte le nostre forze.

Una ricerca infinita che forse, potremmo scoprire, non è altro che l’aspirazione ultima dell’esistenza stessa: trovare la pace. Pochi istanti di felicità, instabili, aleatori certo, ma anche nutritivi per l’anima: uno scorcio di natura incontaminata che ci sovrasta con la sua immortale bellezza; una scorta di provviste lasciataci da qualche altro viandante-giocatore che ha solcato, chissà quando e da quale altra parte del mondo, il nostro stesso terreno; la gioia di tornare a casa, a contatto con ciò che ci è familiare, dopo una lunga traversata che ha messo a dura prova corpo e spirito.

Forse non troveremo mai risposte soddisfacenti alle grandi domande che tutte le anime umane sono destinate, prima o poi, a porsi. Forse non esistono risposte e tutto ciò che possiamo fare è andare avanti e sopravvivere, insieme, confortandoci l’un l’altro mentre tentiamo di percorrere quel nostro misterioso e comune tragitto: la vita.

Debolezza e fragilità esprimono la freschezza dell’esistenza, rigidità e forza sono compagne della morte.

Stalker (Tarkovsky, 1979)