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Capitani famosi e capitani coraggiosi
Salve ciurma! Ma no, non in senso spregiativo: in fondo siamo tutti sulla stessa barca della vita, no? Sto provando a timonare questa mia imbarcazione digitale verso una direzione che punta dritto verso…
Uhm… Ok, allora vediamo… Dicevamo: la direzione! A volte, navigare senza un itinerario designato ti permette di puntare verso direzioni inattese e approdare su lembi di terra poco conosciuti. Ma forse, cari lettori, mi piace l’idea di considerarmi un capitano, come Morte si rivolgeva al Nameless One in Planescape: Torment, uno dei viaggi epici più belli e importanti della storia videoludica, nonché uno dei videogiochi a me più cari: «What’s up, chief?». Forse ripenso con affetto a «Oh capitano, mio capitano» del professor Keating, interpretato da Robin Williams ne L’attimo fuggente.
Capitani della cultura
Nella letteratura, nel cinema, nella musica e, ovviamente, anche nei videogiochi, ci sono tanti riferimenti a capitani più o meno famosi e più o meno coraggiosi, che stento a ricordarli tutti. I più piccoli penseranno a capitan Uncino o capitan Jake. Al pubblico nerd verrebbe subito in mente capitan America o il capitano Kirk di Star Trek. Capitan Harlock? Ormai anche i più giovani dovrebbero conoscerlo dopo la trasposizione cinematografica in CGI realizzata nel 2013. Vogliamo parlare del capitano Jack Sparrow interpretato da Johnny Depp in Pirati dei Caraibi? Perché no, un tipo strambo, fuori dagli schemi, un pirata fuorilegge ma dal cuore d’oro. Ne vediamo sempre uno aggirarsi nelle fiere tra i cosplayer, mi sbaglio?
Anche nel mondo dei videogiochi ce ne sono tanti. Penso subito a Edward Kenway, capitano della Jackdaw in Assassin’s Creed IV: Black Flag, al Capitano Price, personaggio ricorrente della saga di Call of Duty, oppure allo spietato Albert Wesker, ex-capitano della squadra S.T.A.R.S. nella serie videoludica e cinematografica Resident Evil.
«Sono Guybrush Treepwood, temibile pirata!»: vi ho beccati eh? Vecchiacci retrogamer. Ma con affetto: sono uno di voi. Però Capitan Guybrush suona strano, dovrei anche citare il capitano pirata non-morto LeChuck, suo acerrimo nemico nella saga di Monkey Island ideata da Ron Gilbert.
Se guardo alla letteratura penso subito al capitano Achab di “Moby Dick” (Herman Melville, 1851) o al capitano Nemo di “Ventimila leghe sotto i mari” (Jules Verne, 1870). Sapete, quel libro di Verne è stato molto probabilmente il primo romanzo che ho letto, almeno da quanto ricordo.
Mi fu regalato, forse per torturarmi (non ricordo quanti anni avessi, ma ero piccolo), infatti lo trovai abbastanza pesante. Non mi arresi e lo completai come si completa a forza un difficile compito a casa assegnato dalla maestra. Eppure quel libro mi rimase impresso nella mente. Con il senno di poi, potrei considerarlo come la freccia di Cupido del mio amore verso il genere fantascientifico, o forse il primo marker rifrangente sull’itinerario culturale che ho perlustrato nella mia vita. Allo stesso tempo, credo mi abbia insegnato anche a masticare e digerire meglio certe letture più difficili, come trattati filosofici (materia che amo molto) e romanzi complessi e ricercati come Il pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco. Quest’ultimo impiegai mesi per leggerlo, ma che dico leggerlo: tradurlo e studiarlo, perché un lavoro di quel calibro, a meno di non esser nati tuttologi, è veramente duro da assimilare semplicemente sfogliando le sue pagine.
Ma torniamo ai nostri capitani.
Captain Beefheart: il capitano pirata della musica
Pensando alla musica, ad alcuni italiani verrà sicuramente in mente La canzone del capitano di DJ Francesco (Facchinetti). E siccome è venuto in mente anche a me, direi pure ai meno giovani. Ricordo che i bambini la adoravano, ma io, a furia di sentirla sempre, cominciai a detestarla. Se penso alla mia giovinezza, mi viene subito in mente ”Captain Jack”, una di quelle tracce inserite nelle compilation simil-HitMania dance, roba anni ‘90 che: toglietevi tutti ragazzi! Ok, ammetto di essere colpevole.
Ma il primo personaggio che mi è balzato in testa e che ho voluto conservare per ultimo perché, come ho ragione di credere, conosciuto soltanto da una platea ristretta di persone, è quel pazzo scatenato di Captain Beefheart, al secolo Don Van Vliet, eclettico genio musicale che, tra i tanti fantastici album realizzati, nel 1969 partorì il disco più fuori dalle righe del pentagramma che la storia della musica ricordi: ”Trout Mask Replica“.
Beefheart fu senza dubbio il capitano pirata della musica e, con quell’album, riuscì letteralmente ad abbordare il mondo della melodia, depredandola, saccheggiandola delle sue regole e certezze assolute. Non con le maniere gentili: a cannonate, così come trattò i suoi musicisti: alla stregua di una marmaglia, feccia dei sette mari, anzi, delle sette note musicali. Esigendo che la band s’immergesse totalmente nel suo lavoro, Van Vliet rinchiuse la Magic Band in una minuscola casa in affitto, per otto mesi, impedendogli di uscire e avere contatti con l’esterno finché non avessero concluso tutte le registrazioni.
La ciurma dormiva ammassata in una stanza minuscola mentre Beefheart riposava nella sua stanza personale. Si lavorava giorno e notte, a seconda del momento di ispirazione o della follia creativa del Capitano. Frank Zappa, amico di Beefheart e produttore del disco, gli portò un registratore portatile per effettuare le incisioni in loco. La leggenda narra che le tracce furono catturate nei luoghi più improbabili: dalla camera da letto al bagno, ovunque Beefheart lo ritenesse opportuno, ovunque l’acustica gli risultasse più congeniale. Talvolta, costringeva i membri della band a suonare lo strumento isolati dagli altri, per poi mettere insieme i vari pezzi in un secondo momento, in sede di post-produzione.
Vi ho raccontato questa storia per ricordare a me stesso e a voi, miei cari lettori, che certi gesti, che possono apparire in un primo momento incomprensibilmente folli, talvolta hanno portato alla realizzazione delle opere più grandiose e visionarie della storia umana.
Friedrich Nietzsche: il capitano della filosofia
Non credo sia un caso se il mio filosofo preferito è Friedrich Nietzsche.
Uno degli uomini più fraintesi nella storia, genio creativo e lungimirante uomo di cultura, Nietzsche venne rinchiuso in un manicomio subito dopo la faccenda del Cavallo di Torino, dalla quale il regista ungherese Béla Tarr tirò fuori, nel 2011, un film difficile, pesante ma altrettanto potente e brillante. Per chi non conoscesse la storia: nel 1889, subito dopo aver scritto due dei suoi lavori più belli: L’anticristo (1895) e Ecce Homo (1888), Friedrich stava passeggiando per le vie di Torino. D’un tratto, vedendo un cavallo frustato a sangue dal suo cocchiere, lo allontanò furioso, si avvicinò all’animale e lo baciò e abbracciò forte, piangendo e disperandosi per le sue sofferenze.
Dopo, Nietzsche tornò a casa e pronunciò le famose parole: «Mamma, sono pazzo!». Si fece rinchiudere e passò gli ultimi anni della sua vita in un mutismo quasi totale.
Georg Simmel, filosofo e sociologo tedesco, intese quel gesto come la sua volontà di fuga dalla modernità. Io credo che Nietzsche sia “impazzito” anche perché logorato dalla solitudine e, soprattutto, dalla frivolezza e crudeltà degli uomini che lui, il più cristiano fra gli atei, detestava, sognando un futuro abitato da uomini più elevati: gli oltreuomini.
Un capitano da 4 soldi
Tra tutti questi grandi capitani della storia e della cultura, chi sono io per arrogarmi il diritto d’esser considerato un capitano? In quest’umile sede digitale del web dove siete approdati, sono più che altro una maschera, un vecchio Capitan Fracassa della commedia dell’arte. Come quello accompagnato dal mio conterraneo Massimo Troisi nella pellicola del 1990: Il viaggio di Capitan Fracassa, di Ettore Scola, regista scomparso nel 2016 e troppo poco celebrato sui social network, continuamente scossi dalla scomparsa di altri personaggi e influencer di dubbio spessore artistico.
Ebbene ciurma, se non vi annoia, se siete tanto “eroici” da riuscire a seguirmi fino in fondo alle pagine delle mie stravaganti e talvolta deliranti digressioni citazionistiche, se siete disposti a sopportare la mia stravaganza, sappiate che potete chiamarmi come più vi aggrada, sarete sempre voi i «miei lettori predestinati». Che importanza ha il resto?